Fellini 100

Fellini 100, evviva Fellini! Ma non solo, per favore.

Sono felice di ogni singolo omaggio, di ogni singola mostra per ricordare questo genio assoluto del nostro cinema e del cinema mondiale, ma vorrei che questo nostro Paese avesse memoria e riguardo per tanti altri nostri artisti, grandi e meno grandi.

Lo so, suona polemico, ma non è esattamente questa la mia intenzione: è che vorrei che non si fosse sempre così ingrati e distratti verso tanti talenti, scivolati nel dimenticatoio con una velocità vergognosa.

Addirittura si è pubblicizzata una maratona di film del grande regista riminese, definendolo il primo regista che ha reso il nostro cinema internazionale: un errore madornale! Capisco l’entusiasmo, capisco l’ammirazione, ma non l’ignoranza in chi si occupa di cinema.

A parte Roma città aperta di Rossellini, che attraversò l’oceano quando Fellini non aveva ancora battuto il suo primo ciak, Vittorio De Sica aveva già vinto due Oscar – con Sciuscà nel 1948 e con Ladri di biciclette nel 1950 – quando Federico Fellini prese il primo nel 1957 per La strada.

Con il grande Vittorio condivise il numero di Oscar vinti “sul campo”, quattro, ma lo superò di uno con quello alla carriera, che ricevette dalle mani di Sophia Loren, proprio l’attrice che a De Sica deve quasi tutto.

Non voglio assolutamente metterli in competizione né disconoscere la continuità e l’attualità della fama di Federico, ma voglio solo dire che Fellini non fu il primo a proiettare nel mondo il nostro cinema.

Se poi vogliamo far le pulci alla storia, allora dobbiamo addirittura andare all’epoca del muto quando il Quo vadis? di Enrico Guazzoni del 1913 e il Cabiria di Giovanni Pastrone del 1914 resero il nostro cinema il più conosciuto al mondo.

Capisco che oggi non se ne ricordi più nessuno, ma ben prima che Scorsese ammettesse che ai grandi maestri italiani deve il proprio cinema e che Quentin Tarantino si sentisse ispirato dal nostro cinema di genere degli anni Settanta, il grande David W. Griffith dichiarò che il suo Nascita di una nazione del 1915 mai sarebbe nato senza i kolossal muti sopra citati.

Capisco anche che di Fellini ce ne sia uno solo, ma il nostro Paese dovrebbe ricordare con la stessa solerzia anche altri grandi e meno grandi, a cui comunque si deve tanta storia del nostro cinema, disciplina che io sogno sempre di vedere un giorno inserita nei programmi scolastici.

Totò è dovuto morire e ha dovuto aspettare lunghi lustri per riuscire ad avere l’onore che gli spettava, ma l’elenco di chi è finito in soffitta è lungo. Non tutti geni? D’accordo, ma se nelle altre arti si ricordano anche i minori, perché nel cinema no e addirittura tengono compagnia ai più grandi nell’indifferenza istituzionale generale?

L’immortalità di Fellini è davvero il giusto tributo a un talento assoluto, che, in quanto tale, è e resta unico e questo voglio ribadirlo proprio nei confronti di quegli emulatori che credono di poterlo scimmiottare.

Ebbene sì, “Fellini ha fatto danni” – affermo per assurdo – nel senso che il suo cinema, divenuto da un certo momento in poi sempre più visionario e onirico, ha ispirato registi che molto hanno studiato, ma poco hanno compreso che quel suo modo di fare cinema poteva permetterselo – in quegli esatti termini – solo lui, perché frutto di quel mondo magico, ricco e fantasmagorico, che nasceva da quel suo capoccione grande così (cit. Alberto Sordi).

Quella magia derivava da un equilibrio fra infinito talento, immaginazione vivida e personalissimo vissuto non replicabile sbattendo sul set quattro spiritati e qualche pretino o suorina qua e là a colmare vuoti creativi assoluti.

Su Fellini si sono scritti molti libri, ma io vi segnalo Fellini e il doppiaggio, di Gerardo Di Cola, che spiega un aspetto fondamentale nel suo cinema, raccontando al tempo stesso di un elemento cardine nella storia del nostro: il doppiaggio, appunto.

Interessantissima e preziosa monografia su questo genio del ciak, è un libro che non riscrive il già scritto, ma indaga ciò che non era stato indagato a fondo.

Non è vero che i film di Fellini mancassero di una vera e propria sceneggiatura, ma piuttosto che non ne possedevano mai una tradizionale, immutabile, monolitica, pedissequa, fatta di sole parole.

Il regista era un vucano creativo, che spesso esprimeva in schizzi e disegni ciò che immaginava, capace di dare forma al film nel momento stesso del suo rodaggio e non necessariamente in maniera esaustiva nella classica fase precedente della sceneggiatura. In lui le fasi canoniche della creazione di un film non erano così nette.

Il doppiaggio, nel suo caso, era ciò che realizzava compiutamente i dialoghi: lì si traducevano in suoni e lì trovavano la loro stesura finale. Il doppiaggio era esso stesso una fase creativa, un elemento fondamentale della realizzazione dell’idea.

Se non si sa questo, non si può dire né di conoscere né di comprendere il cinema di Fellini.

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2 thoughts on “Fellini 100

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