Giovanna Minelle, una fotografa e il suo viaggio in solitaria (5)

Giovanna Minelle è ormai alla sua quarta tappa, Madurai. Questa è per me la città in cui più forte ho sentito quell’India che Giovanna ha abbracciato e che io qui ho solo incrociato e sfiorato, perché per me era troppo difficile farne parte.

Madurai

Raggiungo Madurai nella speranza di alloggiare in un ostello della stessa catena incontrata a Mysore. Lo trovo fuori città. Decido di non farmi scoraggiare dalla prima impressione che mi provocano i dintorni ed entro.

Mi accoglie un lungo e dimesso bancone ai piedi di una gigantesca tromba di scale. Non c’è nessuno, neppure un cliente.

Mi danno la chiave di una stanza al terzo piano e un completo di lenzuola. Le sbircio, hanno di certo più anni di me. L’euforia per aver trovato l’ostello si è già spenta. Quando entro nella stanza ne sono ormai certa: gli ultimi clienti sono stati i coloni inglesi!

Sono sotto shock, la stanza ha sei letti e senza lenzuola. Desolata. Desolante. Un’enorme porta a vetri, mezzi rotti, dà su una terrazza che ha più l’aria di essere la discarica di un cantiere edile.

Incrocio il mio volto basito in uno specchio, ovviamente mezzo rotto per essere an pendant. Mi è chiaro che sono l’unica ospite in quel gigantesco e fatiscente edificio. L’unica e la prima dopo una settantina d’anni.

Sono talmente senza parole da non pensare nemmeno di immortalare con la mia inseparabile macchina fotografica quanto vedo. Non che possa dimenticarlo, beninteso.

Giro i tacchi e me ne ritorno in città.

Trovo un alberghetto e una stanza al quinto piano. La stanza singola è degna di un martire cristiano che intende pagare penitanza, ma ormai è tardi e mi fermo.

L’indomani esco presto e prenoto in un albergo cinquanta metri più avanti. La stanza e il bagno sono puliti e perfino spaziosi, per non parlare del lusso di trovare una doccia con tanto di soffione. Ma il lavabo dov’è?! Oh mamma, è in terrazza! Lavabo con vista… su un palazzo e i suoi condomini, dato che di tapparelle nemmeno a parlarne: non vanno col clima.

Mi alzo presto e mi affaccio su quelle famiglie e i loro ritmi: la colazione, l’onore agli dei sugli altarini (non in questo ordine), i bambini in divisa che escono per andare a scuola, i grandi a lavorare, e poi le mamme, i nonni… sono grandi le famiglie indiane anche quando di figli se ne fanno pochi.

Lo sguardo poi scivola in basso e incontra le latrine pubbliche: dalla poesia alla prosa! L’India è così.

Madurai è assediata da famiglie in pellegrinaggio e da turisti di ogni parte del mondo. È una festa di colori fra lo straordinario Meenakshi Temple e i saree delle donne o i dhoti¹ degli uomini. Mi unisco a questo flusso incessante che si ritrova al tempio e dal tempio riparte.

Sono pronta per Kanyakumari. (Continua)

¹ Come il saree è l’abito tradizionale per le donne indiane così il dhoti lo è per gli uomini. Come il primo è ricavato da una lunga stroffa rifinita, così il secondo. Entrambi si drappeggiano, entrambi non hanno cuciture. Il dhoti, una volta indossato, appare come una sorta di pantaloni rigonfi, ripresi fra le gambe, più o meno lunghi a seconda delle regioni.

Le foto sono state gentilmente concesse dalla Signora Giovanna Minelle, che ne conserva tutti i diritti. Pertanto ne è vietata ogni riproduzione o uso.

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