La ruota del Khadi

Non capita spesso che un documentario esca nelle sale, quindi approfittatene se vederete in cartellone La ruota del Khadi, bellissima opera di Gaia Ceriana Franchetti.

Dopo averlo visto e rivisto, tanto mi è piaciuto, ho voluto chiedere alla regista il perché di questo suo interesse per i tessuti, dato che ha fondato negli anni Novanta Indoroman, un emporio che tratta esclusivamente tessuti Khadi e Handlooms.

Mi ha risposto che il film sul Khadi è un gesto di riconoscenza verso un fenomeno che ha reso la sua vita più ricca di bellezza, ma prima ancora mi ha confidato che la ragione di questo suo interesse per i filati realizzati a mano sta nel ricordo dell’eleganza della madre e della nonna, ai cui nomi tutto mi è diventato più chiaro.

Quando si nasce fra la bellezza e fra essa si vive, allora il bello diventa sinonimo di qualità e di stile. Il vero stile non è mai apparenza né esibizione, ma sempre sostanza. Naturale che il Khadi dovesse essere così attraente per una donna tanto innamorata dell’India e discendente di uno dei casati più antichi d’Italia, imparentata con nomi illustri legati al collezionismo d’arte. Da signora qual è non sfoggia titoli e parentele, ma mi sono bastati i primi nomi che mi ha dato di madre e nonna per capire chi fosse, il suo cognome da sposata ha fatto il resto.

Rispetto la sua riservatezza e torno al tema del suo film. Khadi è una parola quasi sconosciuta in Italia, identifica quella stoffa – normalmente di cotone, ma spesso di seta e a volte di lana – realizzata interamente a mano dalla filatura alla colorazione, passando per la tessitura.

Voce guida in questo documentario è Tara Gandhi, nipote del Padre dell’India. Chi meglio di lei per spiegare la rivoluzione pacifica che il Mahatma condusse attraverso il Movimento del Khadi, facendo di quest’ultimo l’ordito e la trama dell’India.

Quando Gandhi incitò gli Indiani a boicottare le esportazioni inglesi delle materie prime tessili, auspicando che in ogni famiglia – anche dei più sperduti villaggi – il Khadi ne riunisse i membri intorno alla produzione di tessuti secondo le tradizioni, dando loro sostentamento, sognava un’India padrona delle proprie risorse, capace di bastare a sé stessa, intenta a rivendicare pacificamente la propria identità storica.

Il Khadi non è solo un tessuto, è una filosofia, questo è più volte ripetuto. Direi che è anche una disciplina, perché il Khadi necessita del charka, ovvero dell’arcolaio: ecco la ruota su cui il Khadi si muove. E il charka è anche un processo di meditazione, perché chi lo muove esercita la virtù della pazienza e la pazienza è meditazione.

Parola persiana entrata nella lingua hindi, probabilmente grazie alla comunità dei Parsi, charka significa ciò che gira, ma anche cielo e spazio, ha dunque in sé un senso di eterno e in India il trascendente è costantemente sotteso all’immanente.

Il Khadi è simbolo di identità, di tradizione, ma anche di una scelta di vita o – per ripetermi – di una filosofia di vita, essendo la più etica fra le lavorazioni, perché mai in lotta con il Creato.

Perfino per la seta esiste una scelta etica: Matka Silk è la seta non violenta, derivata da bozzoli non allevati, lasciati liberi dall’insetto prima della loro raccolta. Si tratta di seta “selvatica”, l’unica ammessa dal Mahatma.

Dicevo che l’India è il regno delle stoffe, numerose sono le tecniche usate e ogni Stato ne ha di proprie, tanto da disegnare una mappa dei tessuti sovrapponibile all’immagine geografica di questo straordinario Paese.

Il Khadi è divenuto anche uno status, perché ogni stoffa è comunque unica a suo modo, essendo interamente artigianale, e porta in sé la tradizione del luogo in cui è fatta, a tal punto che un intenditore sa distinguerne l’origine geografica anche solo da com’è stata piegata per il confezionamento, ancor prima dunque di scoprirne la tecnica di realizzo, quindi per veri intenditori e amatori.

Si differenzia dai tessuti Handlooms per il fatto che questi usano fili prodotti meccanicamente, mentre i restanti processi di colorazione e tessitura restano poi rigorosamente a mano.

Ricchezza e bellezza di questo documentario sono le tante informazioni, curiosità e dati che gli intervistati offrono, ma anche le immagini e soprattutto il loro montaggio.

Se come all’inizio ci viene detto le mani sono il più straordinario strumento, tante ne incontrerete filando, tessendo, tingendo, lavorando solerti fra fili e colori. Tanti colori, accessi, vibranti, apotropaici.

Un documentario che racconta – vorrei quasi dire – in versi più che in prosa di un’arte antica, che tiene salda come radici un Paese che corre libero su innumerevoli charka, che con il loro movimento sempre uguale raccontano di un’India che cammina verso il futuro al ritmo della tradizione.

Gaia Ceriani Franchetti – ph. Alessandro Vasari
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4 thoughts on “La ruota del Khadi

  1. Ringrazio con tutto il cuore di questo articolo così sensibile, partecipe e competente sul Khadi. Mi ha commosso più volte nella lettura per quanto partecipe e consapevole della grandezza del fenomeno. ‘ Patrimonio dell’Umanita’ Grazie Gaia Franchetti

  2. Many thanks for this brilliant article. Can this documentary be seen on YouTube or vimeo?

    I wear khadi almost everyday.

    Best regards.

    Rakesh
    LONDON

  3. Thanks for your appreciation. I saw the film with restricted access for the press on Vimeo.

    Best regards from Italy.

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