Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Lyda Borelli

Prima della divina (Garbo), c’erano le Dive, quelle con la maiusola, le donne fatali, dannunziane, con gli occhi bistrati, avvolte in abiti sontuosi e più ancora da mistero.

Il divismo nasce in Italia e non a Hollywood. Anzi Hollywood non esisteva ancora, perché prima della Grande Guerra i film si facevano sulla costa est, a New York soprattutto, città di teatri, da cui spesso gli attori e i registi provenivano.

Fu solo dopo la prima guerra mondiale che nacque la città del cinema per antonomasia. Fino ad allora la cinematografia trainante fu proprio quella italiana grazie anche ai primi kolossal della storia mondiale del cinema: Cabiria (di Giovanni Pastrone, 1914; con le famose didascalie scritte da D’Annunzio), Gli ultimi giorni di Pompei (di Eleuterio Rodolfi, 1913), Quo vadis? (di Enrico Guazzoni, 1913).

Le nostre attrici avevano cachet da capogiro e fans in tutto il mondo raggiunto dal cinematografo, come allora si chiamava.

Prima fra tutte Francesca Bertini e, a seguire, Lyda Borelli, a cui l’ultima edizione delle Giornate ha dedicato uno spazio espositivo e una proiezione, La memoria dell’altro (di Alberto Degli Abbati, 1914).

Rispetto alla recitazione misurata e più naturalistica delle attrici americane, le nostre dive erano estrememente enfatiche nella loro mimica.

Spesso ricercate e teatrali, fra loro, più di tutte lo fu la Borelli. Oggi potremmo sorridere di certe sue pose tipiche, come l’ampio gesto nel tirare indietro i capelli con la mano destra o lo strano ghigno – diremmo oggi – che a volte poneva o quel suo continuo tendere le braccia in un modo piuttosto innaturale.

Per meglio capire tutto questo bisogna però rifarsi a quei tempi, alla storia del nostro teatro, alla nostra letteratura di allora e ai fermenti culturali e non solo di quel secolo breve appena apertosi alla storia.

Figlia d’arte, Lyda Borelli, prima che attrice di cinema fu attrice di teatro stimatissima. Definita da certa critica come l’unica possibile erede della Duse, con cui peraltro lavorò, grazie proprio alla sua reputazione di interprete si ritrovò davanti alla macchina da presa.

Girò però solo quattordici film, perché le nozze con il Conte Vittorio Cini misero fine alla sua attività artistica.

Donna ammiratissima, ebbe un fascino magnetico per quei tempi. Molto incisero i ruoli che interpretò, ma ancor più il modello di donna che offrì. Lyda incarnò la vera donna di quegli anni: moderna, indipendente, forte e volitiva.

Un’icona per fotografi e moda, ma anche una musa per i Futuristi.

Nel film presentato interpreta un’aviatrice, guida la macchina e fa scelte al di là delle convenzioni e delle convenienze: una vera protagonista della Belle Époque.

Ebbene Lyda nella vita reale non fu così diversa dal personaggio del film di Degli Abbati: le scene furono girate dal vivo e senza controfigure, perché realmente fu una delle primissime donne aviatrici e fra le prime a guidare o a indissore un abbigliamento maschile.

A tal proposito fece scalpore nel 1911 quando apparve su una rivista prima e sulle scene poi con la prima versione di un pantalone per signora, una sorta di antenata della gonna-pantalone, detta allora jupe-culotte, perché a crearla fu il francese Paul Poiret.

Non si può dunque capire fino in fondo cosa sia stata Lyda Borelli se non si va oltre i suoi stessi film.

Le Giornate di Pordenone hanno anche offerto l’occasione per presentare un cofanetto edito dalla Cineteca di Bologna, dedicato alla Borelli e a Francesca Bertini, che non a caso si intitola Dive!.

In esso, oltre a un libretto che raccoglie considerazioni autorevoli, troverete per ciascuna i due film che meglio esemplificano le carriere di queste due attrici: per Lyda il suo primo film, che la catapultò subito nell’olimpo, Ma l’amor mio non muore! (di Mario Caserini, 1913) e Rapsodia satanica (di Nino Oxilia, 1917), un gioiello del nostro cinema muto.

Per ciò che riguarda la grande Bertini, vi rimando invece all’articolo a lei dedicato.

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