La condizione delle vedove in India

Water – Il coraggio di amare

L’India è uno Stato con i piedi nella tradizione e la testa nel mondo che verrà.

Questa dicotomia permea ogni aspetto della vita di questo favoloso Paese. Le tradizioni sono le radici, ma anche l’ancoraggio che ne determina una certa immobilità.

Nella catena sociale la donna è l’ultimo anello, per l’esattezza le bambine intoccabili sono davvero l’ultimo anello.

Nella scala dell’universo femminile le vedove stanno in basso, cosa sia la loro vita quando non sono donne economicamente indipendenti nella società moderna delle metropoli indiane abbiamo potuto intravederlo – anche se la storia è ambientata nel 1938 – nel bellissimo film di Deepa MehtaWater – Il coraggio di amare, una coproduzione indocanadese del 2005, distribuito fortunatamente anche in Italia.

Al festival del cinema indiano di Firenze, da poco conclusosi, ho potuto vedere un altro film che racconta della condizione delle vedove in India e per la verità non solo: The Last Color, che con un lirismo poche volte incontrato sul grande schermo, narra di questo mondo oscuro questa volta ai giorni nostri.

Un titolo che vi prego di annotare e di cercare in rete, perché sicuramente le piattaforme, i siti, le pagine dedicate al cinema indiano non tarderanno a proporvi.

Il regista, Vikas Khanna, è uno chef stellato dai tanti talenti.  Questo è il suo primo film e devo dire che è meraviglioso, potente e travolgente. Scritto, girato, interpretato e realizzato in un modo eccelso.

Anche in questo caso non vi racconterò la trama, perché confido che abbiate l’occasione di vederlo. Sicuramente con l’anno nuovo inizierà a girare nei siti senza scopo di lucro per appassionati di cinema indiano a cui potrete accedere gratuitamente, appunto, e con una semplice registrazione.

Un film che racconta di una vedova e del suo mondo angusto e invisibile, ma anche della piccola intoccabile, che non ha nome: hanno forse nome i cani randagi? dirà Chotti a Noor, la vedova. Chotti vuol dire piccola, quindi è un aggettivo non un nome, la definisce, ma non le dà un’identità.

Diversamente invisibili, queste due creature daranno vita ad uno dei più bei film indiani che io abbia mai visto. Lo spunto della storia sarà un fatto storico epocale: la Suprema Corte indiana nel 2013 ha finalmente abolito il divieto per le vedove di festeggiare l’Holi.

Per la verità in Water c’è una sequenza in cui le vedove festeggiano l’Holi, ma o è una licenza poetica e quindi un faso storico o lo hanno potuto festeggiare perché nel chiuso della loro residenza.

The Last Color

Holi è la festa delle luci e soprattutto dei colori. Proprio questa festa, che nel calendario hindu è quella della rinascita, del trionfo della vita sulla morte, della luce sulle tenebre, del bene sul male era considerata tabù per queste figure silenziose, condannate all’invisibilità e alla morte in vita, all’eterno lutto.

Le vedove, che la tradizione vuole come ombre bianche – in india il colore del lutto -, come fantasmi che si aggirano fra spazi fisici e temporali definiti e che in entrambi i film ritroviamo nella città santa di Varanasi.

Ombre che in quanto tali hanno il divieto di sentire, nel senso pieno e molteplice del termine, che comprende tutti i cinque sensi e tutti i palpiti di un cuore.

Le vedove così intese devono espiare con una vita di totali rinunce “la colpa” di aver portato malasorte al marito. Lo so, sembra incredibile, ma è così! La superstizione è spesso sottesa nei riti, striscia e si gonfia fino a travolgere vite nelle sacche di miseria e ignoranza di parte della popolazione.

Loro che devono già ritenersi fortunate perché risparmiate e non più immolate sulla pira del marito secondo il rito del sati. Pratica questa che però i sikh, fin dall’inizio del loro culto, vietarono ai propri fedeli e che fu in verità gradatamente abbandonata nei secoli nei vari Stati indiani, rimanendo però saldissima nel West Bengala e ancor più nel tradizionalissimo Rajasthan, dove ancor oggi un comitato la rivendica.

The Last Color

La prima menzione del sati risale al 510 a.C., abolito per legge dagli Inglesi non ha mai smesso di esistere, tanto che nel 1987 si è arrivati a un Commission of Sati (Prevention) Act, ma non per questo la cronaca ha smesso di registrare casi sia pure sporadici, che ora appaiono “volontari”.

Film come The Last Color o Water accendono mille riflettori su quella parte della società in India su cui si allungano ombre scure, che tendono a nascondere al visitatore e alla coscienza civile la realtà dei fatti.

Sono film di denuncia, film che hanno come primo intento quello di scuotere l’opinione pubblica e in questo Deepa Mehta ha un’intera filmografia alle spalle, se non ne conoscete l’opera vi raccomando almeno la trilogia degli elementi, di cui Water è l’ultimo capitolo.

Lo precedono Fire (1996), che lancia uno sguardo sulla realtà spesso molto dura per una sposa in un matrimonio indiano e sull’amore saffico – assoluto tabù -, ed Earth (1998), film che affronta la pagina più dolorosa della storia di questa giovane democrazia: la partizione.

In copertina Lisa Ray in Water.

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