Addio, Doris Day

Addio, Doris Day. Sei stata l’attrice americana a me più cara.

Ho amato i tuoi film, quelli con Rock Hudson su tutti.

E i tuoi abiti di allora sempre en pendant con soprabiti e accessori, che il costumista delle stelle Jean Louis disegnò per te.

Mai una volgarità, mai sopra le righe. Nemmeno nella vita.

Talmente fedele a te stessa da rifiutare la parte che fu poi di Anne Bancroft ne Il laureato in un momento difficile della tua carriera, ma non hai esitato, non ti rispecchiava.

Chi ti è stato collega ha sempre speso per te belle parole a riprova del fatto che non hai solo avuto talento, ma anche spessore, cosa rara nell’ambiente.

Tu che una famiglia felice non l’hai avuta, l’hai rincorsa invano per tutta la vita, sempre pronta a lasciare le scene per questo progetto che non sei mai riuscita a realizzare. Sei però stata una brava e amatissima madre, anche se non fortunata, perché sei sopravvissuta a lungo al tuo unico figlio.

La vita ti ha messa alla prova spesso, ma hai avuto carattere e fede e non ti sei mai fatta né travolgere né compatire. Capace di un’evidente forza interiore e di un comprovato equilibrio, sei arrivata a festeggiare lo scorso 3 aprile 97 anni.

La raccolta di firme in rete non ha fatto in tempo a chiedere per te quell’Oscar, che hai sfiorato una sola volta per Il letto racconta e che l’Accademy non ti ha mai voluto riconoscere a conclusione di una brillantissima carriera, che ha fatto guadagnare milioni di dollari ai produttori.

Lo ha però fatto l’Associazione della Stampa Estera, consegnandoti il Golden Globe alla carriera nel 1989.

Forse non ti hanno mai perdonata di non essere mai stata legata a quel mondo, ma di averlo frequentato solo con la serietà che si deve a un luogo di lavoro, senza essere mai stata disposta ad anteporlo alla vita vera.

E a questa sei voluta tornare non appena sei riuscita a ricostruirti una sicurezza economica, che la cattiva gestione del tuo terzo marito e la disonestà del tuo storico avvocato avevano mandato in fumo, lasciandoti addirittura nei debiti.

Ti sei buttata tutto alle spalle senza rimpiati, non ritornando su un set che per una trasmissione via cavo, in cui ricevere i vecchi amici e colleghi di un tempo e poter parlare della causa a cui poi hai dedicato il resto della tua vita: gli animali randagi.

Quando visitai Carmel, in California, non sapevo ancora che fosse proprio la città in cui avevi deciso di vivere dopo aver lasciato Hollywood. Né sapevo che lì avevi un albergo, il Cypress Inn. Scoprii tutto quando ero ormai di ritorno in Italia.

Carissima Doris Mary Anne Kappelhoff, che prendesti il cognome Day dalla canzone tua preferita di allora, Day by day, credo che Hollywood abbia dimenticato la pagina bella che sei stata nella sua storia, ma non il tuo pubblico.

Lo diceva anche tuo figlio, Terry Melcher, in un’intervista di tanti anni fa, parlando della quantità di posta che ancora ricevevi e del numero di dischi che ancora vendevi.

Già, la musica. Finiti i tuoi sogni di ballerina per un brutto incidente, proprio quando da ragazza avevi vinto un premio ed eri in partenza per Los Angeles, hai trovato nella musica la forza per affrontare quei lunghi mesi, che ti sono serviti per recuperare l’uso della gamba.

Tutti ti ricordano per Que será será, ma l’America intera ti scoprì con A Sentimental Journey nel 1944.

Ormai cantante nota, qualche anno dopo entrasti a Hollywood dalla porta principale: fu colui che diventò poi il tuo primo regista, Michael Curtiz, a cercarti per il tuo primo film, Amore sotto coperta (1948), e dovette perfino insistere, perché tu avevi altri piani, quelli di sempre: una famiglia.

Ma come recita il mio salvaschermo – la vita è ciò che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti – e il tuo destino non fu questo.

Cara Doris, te ne sei andata senza clamore con la discrezione con cui hai vissuto, ti accompagni l’amore del tuo pubblico e la riconoscenza per il tanto tempo lieto che a noi tutti hai donato.

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